La Post produzione è davvero importante?

L’omologazione che ha generato facebook e altri siti social dedicati alla fotografia ha sempre più fatto passare come scontato che dietro una qualsiasi fotografia ci sia un pesante lavoro al computer. Per chi arriva da anni di pellicola è una sorta di caccia alle streghe. Dietro ogni fotografia si può celare il “tarocco”, la presa in giro dell’osservatore, con immagini totalmente costruite, ipersature, con profondità di campo impossibili, per non parlare di oggetti cancellati o spostati.

In tutto questo rumore è possibile parlare di post-produzione, e se si, quanto è importante lavorare al computer una fotografia? Sarà meglio lasciare perdere e tornare a scattare le fotografie come si faceva in invertibile?

Se siete passati dalle pellicole e dalla stampa saprete che la fotografia è sempre stata manipolata, correzioni di esposizione, bruciature ai bordi, correzioni locali, sovrapposizioni di negativi, etc. Insomma in camera oscura volendo si poteva migliorare e modificare notevolmente un’immagine. Non era un gioco da ragazzi.

Qui potere vedere un’immagine di Richard Avedon con tutte le indicazioni di mascheratura ed esposizione per il suo retoucher. Se questa non è post-produzione come possiamo chiamarla? L’epoca della foto è il 1967.

 


 

Uno dei più apprezzati fotografi (a ragione), Ansel Adams nel 1941 scattava “Moonrise”, qui sotto potere osservare l’originale stampato senza “ritocco” e a destra la versione stampata seguendo la tecnica del sistema zonale inventato dallo stesso Adams.

Ansel Adams è il fotografo che ha inventato il sistema zonale con una tecnica di Burn&Dodge molto precisa e magistralmente creativa. Era la post-elaborazione delle sue immagini che le rendeva più dinamiche e accattivanti.

 

 

Questi esempi rivelano il mito che prima dell’era digitale tutte le fotografie non erano ritoccate ed uscivano direttamente dalla fotocamera non è vero. Da sempre si è ritenuto necessario il lavoro di stampa creativo per realizzare l’immagine finale. La differenza tra allora ed oggi è che i processi sono diventati digitali, veloci, precisi e più accessibili a tutti.

Ritengo che la post-produzione oggi sia accessibile a tutti in modo più semplice. Credo sia utile dedicare del tempo all’analisi delle immagini stampate quando il digitale non si sapeva nemmeno cosa fosse. E’ affascinante studiare le tecniche nell’era analogica e guardare come i fotografi annotavano i provini per realizzare la stampa finale.

 

(Ritratto di James Dean di Dennis Stock 1955)

 

 

Qual’è il confine tra post-produzione e ritocco?

Ritengo che, come allora, anche oggi non si possa fare a meno, di post-produrre. Ma fino a che punto ci si può spingere con la lavorazione di una fotografia digitale?

La post-produzione è ciò che può migliorare l’immagine a livello di contrasti, luci, dettaglio. E’ come prendere un testo di una canzone e interpretarla. Il testo è sempre quello, ma possiamo cantare in modi diversi e con arrangiamenti musicali differenti. L’interpretazione e la musica possono enfatizzare o meno le strofe del pezzo. Ugualmente in post-produzione possiamo dare una nostra, personale, interpretazione dell’immagine latente che produce il sensore fotografico.

L’immagine che esce da un sensore fotografico è “piatta” priva di colore, di contrasti. (provate a selezionare la curva “flat” o “neutral”). La post-produzione si rende necessaria se vogliamo dare una nostra visione dello scatto.

 

 

Dalla post-produzione all’esagerazione il passo è breve

Parliamo di foto-ritocco quando iniziamo a spostare i pixel, cancellare elementi, cambiare colori. Detto questo anche in post-produzione possiamo ottenere risultati che si avvicinano molto alla totale deformazione della realtà.
Rispetto al processo analogico è facile esagerare con le funzioni disponibili nei software di sviluppo digitale.

I file digitali, senza entrare in questo articolo nel dettaglio, hanno dei limiti, per esempio lo schiarimento delle ombre non andrebbe mai eseguito, pena creare dominanti e diminuzione del dettaglio. La sovraesposizione sia locale che generale andrebbe sempre evitata per le stesse ragioni.

Esistono metodi e filtri in fase di produzione, come il polarizzatore, i filtri digradanti, che ci permettono in modo veloce e pratico di migliorare già in fase di realizzazione il nostro scatto (saturazione, eliminazione dei riflessi, compensazione delle esposizione tra zone dell’immagine). Tutti espedienti utili che migliorano le nostre immagini in modo naturale restituendo colori e contrasti plausibili, direi analogico come tale deve essere.

 

 

Occorre una buona esperienza, creatività, sensibilità, conoscere i processi e i limiti tecnologici per affrontare in modo corretto la lavorazione delle immagini, se non vogliamo omologarci alle immagini “cartolina” che vediamo invadere social e siti web.

Il consiglio personale è di osservare la luce, studiare come questa cambia, sfuma e attendere il momento giusto per fotografare. E’ importante cercare il più possibile di registrare sul sensore la migliore qualità di contrasto possibile (regolando l’esposizione, gestendo con i filtri la luce), lo si faceva già in pellicola.
Successivamente sarà necessaria la post-produzione, regolazione dei contrasti, esposizione locale, dettaglio, curve esposizione e colore per restituire la nostra personale interpretazione.

Una buona fotografia, che emoziona attraverso il racconto, non necessita di ore di post-produzione. Basta seguire un flusso di lavoro preciso, pensato, per ottenere un’ottimo risultato. Se cerchiamo di esagerare con gli effetti, cliccando a caso come si fa con Instagram, magari cercando colori ipersaturi è come se uno chef per sorprendere il proprio pubblico utilizzasse a sproposito sale, pepe e altre spezie piccanti. Un buon piatto ha gusti ben bilanciati che non si coprono tra loro. Una buona fotografia racconta un luogo, un’azione, un fatto, senza utilizzare esageratamente il colore o espanse dinamiche di contrasto, che nemmeno il nostro occhio è in grado di percepire.